Articolo di Michele Furfari
Ostrava, fine anni ’50. Una massa informe di lavoratori sonnolenti riempie la banchina di una anonima stazione ferroviaria.
Un ragazzo sui 13 anni, il volto sporco di fumo e carbone dopo una giornata trascorsa in miniera, cerca riparo sotto una tettoia durante una tempesta di neve. Un uomo di mezza età, con un logoro vestito da impiegato, mostra commosso la fotografia del padre sorseggiando una Pilsner.
Siamo nel cuore industriale della Repubblica Socialista Cecoslovacca.
Il mito del socialismo reale, finalmente riemerso dalle tenebre staliniste, si manifesta in tutta la sua sconvolgente potenza.
Sventra paesaggi, annichilisce, omologa e assimila. Ma tra i tanti muti testimoni delle devastazioni del socialismo reale, un ragazzo di poco piu’ di vent’anni, armato di una vecchia Leica comprata in un antikvariat per poche corone, accenna un timido atto di protesta.
Come definire l’opera di Viktor Kolář? Un realismo poetico di matrice boema, che scava nella quotidianità per descrivere, con lucida ironia, il vuoto esistenziale lasciato da un progresso industriale frenetico e convulso. La rielaborazione socialista (o post socialista) della lirismo surreale dei vari Atget e Brassai, calati nella provincia industriale della Cecoslovacchia dei primi anni ’60.
Ma soprattutto il processo di amara consapevolezza di un uomo che assiste inerme alle trasformazioni brutali subite dal suo territorio, cercando speranza e voglia di resistere nelle facce stravolte dei suoi abitanti. Un uomo talmente legato alla sua città da tornare in Cecoslovacchia negli anni terribili della normalizzazione, dopo un lustro in Canada da rifugiato politico, lasciandoci istantanee, macabre e struggenti. Come quella di due ragazzi che si tuffano in un laghetto plumbeo con un’enorme pila di rifiuti e macerie sullo sfondo.
Dopo una prima fase forse influenzata dallo stile dei neorealisti Italiani, in cui il fotografo osserva con sguardo partecipe i suoi concittadini, con una profondità di analisi psicologiche sconvolgente, lo stile di Kolar si fa piu’ rarefatto. La critica lascia spazio all’ironia. E all’astrazione. Un bambino, semi nudo, scruta un complesso di sidliště, rapito, quasi fosse un ecce homo precipitato nel paradiso socialista della Slesia. Un uomo di mezza età osserva una vetrina semi vuota nel centro di Ostrava, mentre i passanti gli gettano occhiate diffidenti. Strade semi deserte, volti tesi. Ma anche l’inaspettata esplosione di colore di un passeggino con dei palloncini.
L’opera di Viktor Kolář è una delle vette assolute della produzione artistica ceca degli ultimi 50 anni. Per la prima volta nella sua storia, la galleria della Città di Praga gli dedica una retrospettiva con oltre 250 scatti, molti dei quali inediti. Un’occasione unica per riflettere, tramite lo sguardo rigoroso di un uomo che ha vissuto sulla propria pelle le tragedie del socialismo, sul passato della Repubblica Ceca.