Di Lorenzo Polo
La scultura che Černý ha dedicato a Franz Kafka con il titolo di “Metamorphosis” è alta 11 metri ed è composta di 42 pannelli d’acciaio ruotanti attorno al proprio asse. Il volto dello scrittore viene composto e ricomposto ciclicamente dando vita a una serie di coreografie. A differenza delle precedenti sculture di Černý, dove la volontà di creare uno stile anche solo fine a sé stesso appare evidente, questa assomiglia più al prodotto autonomo di una mente artificiale. Non è un caso che si sia servito del reparto di ingegneria meccanica di una nota ditta specializzata in robotica per questo progetto.
E’ stato più volte notato come nelle opere di Kafka i personaggi delle narrazioni, anche quelli più rilevanti, appaiono privi di tratti fisici distintivi e sono sempre e soltanto funzioni subordinate alla necessità di un congegno invisibile, incomprensibile e indecifrabile. Questo non fa che determinare la loro assenza sulla scena della vita. Non c’è infatti presenza che sappia accogliere questa capacità di essere essenzialmente ciò che si è. Desideri come scheletri che assomigliano a vettori, come quelli appuntati alle figure distorte e ai volti “cancellati” di Francis Bacon.
Prendiamo un esempio che tutti possono comprendere. Nella Metamorfosi, Gregor è incastrato in meccanismi (il risveglio come insetto e i problemi pratici, le dinamiche psicologiche e familiari etc) che lo privano della sua propria identità. La statua di Černý riflette questa mancanza attraverso la superficie riflettente dei pannelli. La area del volto è vuota, riverbera solamente immagini esterne deformandole nelle curvature della propria sagoma. Solo il profilo della testa svela una parvenza di riconoscibilità.
In questa scultura Černý non ha inteso dar vita alla rappresentazione monumentale di un’icona letteraria o meno, ma all’essenza stessa della psicologia umana.
La scomposizione/ricomposizione del volto, creata dalla rotazione simultanea o alternata dei pannelli è un evento che provoca essenzialmente stupore. Uno stupore che risulta in certo qual modo comico come si può osservare attraverso gli occhi dei bambini che ridono spontaneamente. E’ anche il riconoscimento di una verità fondamentale: l’identità umana non è altro che una proiezione negli occhi dell’altro, restituita a noi in sfaccettature che riemergono per formare la “nostra” immagine.
Questo assunto, attestato ormai attraverso Fraud e Lacan nella storia del pensiero e della psicologia, raggiunge in Kafka il suo limite estremo. La pratica chirurgica dell’autore del Processo e della Colonia Penale si configura come uno strumento di tortura e godimento nella scrittura. Si è già visto come la struttura delle sue narrazioni può essere descritta come una trave reticolare che si snoda in più punti proliferando come una radice (Deleuze). La statua di Černý è costituita da un asse verticale a reticolo su cui sono innestati uno sopra l’altro i pannelli ruotanti: ognuno di essi è una sezione del cranio di Kafka ed ogni parte è stata resa programmabile in modo indipendente di modo che le possibili combinazioni possano risultare pressoché infinite.
Nella La Colonia Penale la macchina programmata per incidere sul corpo la sentenza del condannato “per 12 ore di fila”, funziona in modo analogo*.
Nel racconto La Tana i percorsi sotterranei non sono semplificabili attraverso la lotta per la sopravvivenza o la fuga davanti al pericolo, ma una ricerca che sfocia nel paradosso della sospensione dove tutto alla fine “rimane immutato…” e restano solo tracce, ombre di desiderio che rivelano la struttura dell’inconscio, simile agli ingranaggi di un pendolo che oscilla costantemente tra principio di piacere e impulso di distruzione. Sullo sfondo il deserto e il vento. Come quello che spinge via la carrozza del Medico (di Campagna n.d.r.) nella tormenta.
Anche il Castello e il Processo sono dei tentativi di opporsi a una forza superiore. Ciò che è peculiare in Kafka è che l’impossibilità è insieme la premessa ed il motivo di questa ricerca.
*“Il corpo rappresentato da Kafka sul punto di essere scavato dagli innumerevoli aghi della macchina, è l’organismo inserito in un «orizzonte spersonalizzato» che dissolve la potenzialità eversiva della corporeità in quanto centro d’irradiazione del desiderio e delle pulsioni”. Loretta Pistilli “Il corpo tra scrittura e morte. Una lettura fenomenologica del racconto di Franz Kafka «Nella colonia penale”»