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Helsinki, dove il punk si è fermato: un libro che spiega il punk oltrecortina

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Sigarette. Alcol. Colla. Lo schifo di sentire le radio mainstream. Lo schifo di guardare merda in TV. I quartieri IACP. Fare a botte coi poliziotti. Prenderle dai poliziotti. Sex Pistols. The great complotto. La protesta. No future.

Ecco, il punk è stato un po’ tutto questo. Da tutte e due le parti della cortina di ferro, come si capisce molto bene leggendo il romanzo “Helsinki, dove il punk si è fermato”. Il libro, uscito in traduzione italiana nel 2018 per Poldi Libri e presentato ora in Italia, è di Jaroslav Rudiš, uno dei più validi esponenti della letteratura ceca post-89.

Al di là dello stile piuttosto scorrevole, il romanzo porta con sé varie problematiche. Anzitutto strutturali. Si svolge in diversi luoghi e su più piani temporali. Da un lato abbiamo la Cecoslovacchia del 1987, vista dagli anni di una punk sedicenne di Jeseník (vicino Olomouc). Il quadro fornito in questo diario (sgrammaticato e senza punteggiatura), tratteggia molto bene il clima del regime socialista, anche se in verità se ne ricava l’idea di un paese un po’ più libero di quello che lo stereotipo occidentale lascerebbe credere.

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Dall’altro lato – per la maggior parte di “Helsinki, dove il punk si è fermato” – è quello di Ole, proprietario di un bar, anche lui punk ai tempi della Germania est. Ma la storia di Ole si svolge ai giorni nostri in una città della Germania orientale, quando sia la DDR che lo spirito punk del protagonista sono spariti da un po’. Questa parte è però caratterizzata da lunghi flash back. E in questi flash back, visti col senno di poi, la percezione di un regime socialista e della Stasi onnipresente, ma anche la visione dei punk, è filtrata, più vicina a come ce la si potrebbe immaginare in occidente.

Il punk di qua e di là del muro

Una cosa però emerge chiaramente: se l’attitudine punk è la stessa, i punk del Patto di Varsavia andavano in direzione opposta a quelli delle nazioni “atlantiche”. Se da noi i punk guardavano affascinati ai paesi comunisti (in primis i CCCP italiani), oltre cortina si guardava ad ovest, anche perché il punk dall’ovest veniva. Ma, si ripete, l’attitudine era quella.

Le persone normali facevano una vita routinaria forse più grigia, ma non diversa da quella occidentale. La classica routine “andare a scuola – trovare – lavoro – sposarsi – prendere casa e macchina – avere dei figli”, ai quali nel mondo socialista di solito si aggiungeva “divorziare – secondo matrimonio”.

E questo vale anche per molti aspetti “secondari” della vita e del costume.

Noi avevamo Diana ed MS, loro Start e Mars. Noi avevamo Morandi e Al Bano, loro Michal David e Karel Gott. Noi avevamo Kojak, loro il maggiore Zeman. Noi avevamo i boy scout, loro i pionieri. Le nostre sonde spaziali partivano da Cape Canaveral, le loro da Bajkonur.

Jaroslav Rudiš – Foto Commons/Amrei Marie

Con “Helsinki, dove il punk si è fermato”, Rudíš ricostruisce meravigliosamente un mondo che non esiste più. E qui sta un problema. Ricostruisce un mondo di cui il target logico di una traduzione, ovvero i giovani che ascoltano musica alternativa e magari sono leggermente di sinistra, non sa nulla. Perché non c’erano ai tempi del socialismo. Ma anche perché comunque, di quei paesi si sapeva poco. Poche informazioni entravano, grazie a Radio Free Europe, e nulla usciva.

Ma questo problema riguarda anche chi nel 1987 aveva una certa età. Se gli stili di vita erano simili dai due lati della cortina, c’erano differenze profonde tra i paesi del patto di Varsavia. Ed è una cosa che nel romanzo si nota.

Basta un esempio, abbastanza cruciale per il romanzo. Negli anni ’80 cecoslovacchi, caratterizzati da un pugno di ferro che durava dal 1968, fare musica rock poteva costare il carcere (vedi i Plastic people of the Universe).

Nella Polonia di Solidarność, gruppi come Dezerter e Moskwa facevano musica punk e venivano passati dalla radio di Stato (il cui segnale veniva captato anche nelle attuali Repubblica Ceca e Slovacchia). Questo, a un certo tipo di ascoltatori, può spiegare perché le prime band esteuropee che negli anni ’90 bucarono i confini nazionali per imporsi, nel giro di un lustro, sulla scena metal estrema mondiale, venissero proprio dalla Polonia.

Passando al lato “tedesco” del romanzo ci si trova innanzi ad altre insidie. Ole, il protagonista vero di “Helsinki, dove il punk si è fermato”, è un uomo con la vita in pezzi (la vita quotidiana che non funziona) e pure, a suo modo, rimane un punk dentro di sé. Non ha più la cresta, ma come disse un vecchio metallaro quando gli fecero notare le stempiature “non contano i capelli fuori, ma quelli dentro”. Ole gestisce un bar frequentato da quarantenni che son rimasti punk, come da noi potrebbe esserci un’osteria “Ai Pink Floyd”. Ma il prog in Italia e il punk nella Repubblica Ceca sono due cose diverse.

E anche Italia e Repubblica Ceca sono paesi diversi. Per noi il punk era protesta, per loro era resistenza a un regime. E questo ha fatto si che nei cechi il punk sia sopravvissuto alla gioventù. I cechi se lo sono portato dentro, oltre le vite rispettabili (che vanno in frantumi), oltre il lavoro rispettabile.

Questa è una delle cose più difficili da spiegare agli italiani. Si può essere dirigenti di banca e ascoltare i Dead Kennedys? Si può smettere giacca e cravatta per mettere il chiodo per andare a un concerto di un gruppo conosciuto da 25 persone, bevendo e fumando marijuana come non ci fosse un domani? In Italia è raro. In Repubblica Ceca è relativamente normale.

Ed è normale perché, nel passaggio da Cecoslovacchia e Repubblica Ceca, dal 1988 al 1993, tutto è cambiato ma qualcosa è rimasto, soprattutto a livello di cultura underground. Ed è rimasto a moltissime persone. E soprattutto, pur trasferendo il tutto nell’ex Germania Est, Jaroslav Rudíš è riuscito a trascriverlo in questo romanzo.

1988-1993: affinità-divergenze

Questo ci collega a uno dei problemi principali del tradurre un po’ tutta la letteratura ceca del post 1989. La letteratura ceca, in effetti, è rimasta molto specifica fino al 1989. Tutti gli scrittori cechi, pur diversissimi tra loro sono accomunati nello spirito di venire da una stessa nazione. Si potrebbe escludere Kundera. Ma si deve dire che quella nazione si è molto trasformata dal 1989, è andata molto avanti.

E così molti pongono l’accento sulla pochezza letteraria di molti nuovi scrittori (non a torto) e si fasciano la testa per l’assenza di “nuovi Kundera, Škvorecký e Hrabal” (con uno spirito curiosamente simile a quello delle scene indie e del metal). E non si accorgono che “nuovi Kundera, Škvorecký e Hrabal” non ce ne saranno più perché il contesto culturale è un altro. I confini sono caduti, la censura anche, la Repubblica Ceca non è la Cecoslovacchia.

E così gli scrittori perdono un po’ della loro voce originale, diventano internazionali, si globalizzano. E così saltano fuori i Miloš Urban che prendono il Pendolo di Focault e lo trapiantano in un thriller mitteleuropeo. E saltano fuori i Rudíš, che creano un legame indissolubile tra Repubblica Ceca e Germania, un legame fatto di punk e Wim Wenders. I tempi cambiano, le nazioni cambiano e i romanzi sono qui a ricordarcelo. Per fortuna.

I nostri consigli per altri 10 romanzi cechi da leggere

La nostra intervista al collettivo Poldi

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Tiziano Marasco
Tiziano Marascohttps://www.tizianomarasco.com
Il Vojvoda | Friulano di nascita, parla 9 lingue e scrive in 4 alfabeti. Ha studiato metallistica all'università di Hedlund e seguito le lezioni del professor Krull. Alimenta la fiamma di Trockij, si è stabilito a Praga nel 2011. All'epoca stava fuggedo dalla Russia, dove aveva tentato di sabotare la rielezione di Putin. Riparato a Vienna ha provato a convincere gli austriaci a riprendere le loro terre, stabilendo però il parlamento al Karlmarxhof. Fallito anche questo tentativo, si è stabilito a Praga dove lo aveva invitato il suo amico Egon Bondy. Potete trovarlo a Žižkov travestito da Major Zeman. Per italia praga one way fa il favellatore di lingua ceca e riceve mezzo chilo di halušky al mese (con la bryndza e la slanina, mica quelli coi crauti).
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